Chi fa il mio mestiere incontra molte persone che “fanno” un lavoro e alcune di queste lo “fanno” con un certo affanno. Quando provi a chiedere perché si sentono di “fare” quel lavoro privato di gioia e soddisfazione qualcuno si emoziona e coglie la domanda nel profondo. Dal momento in cui apriamo gli occhi, siamo creature alla ricerca di significato. Alcuni di noi hanno smarrito la Strada, la confondono con vicoli senza segnaletiche o percorsi estremamente dritti, talvolta a senso unico. Sentiamo il richiamo del significato e lo cerchiamo ovunque, a qualunque costo, anche quando nulla ci appartiene. Il lavoro rappresenta una di queste esperienze attraverso la quale cerchiamo di trovare un “perché” spesso annebbiato o sbiadito alla nostra esistenza. E’ talmente vero questo che per qualcuno terminare la carriera lavorativa rappresenta un vero incubo, un sentirsi smarriti, quasi privi di identità.
Il lavoro è una delle espressioni più potenti e significative grazie al quale manifestare il nostro Essere e troppo spesso ce ne dimentichiamo. In alcuni casi sembra che il vero Valore sia rappresentato da titoli, ruoli, promozioni anche quando questi hanno un sapore amaro o insipido. Sembra che il lavoro sia ancora inteso, per certi versi, come un’esperienza passiva piuttosto che coglierne la forza rivelatrice della nostra sorgente e quando ritroviamo il coraggio di dare voce alla nostra anima, senza tempo, senza scadenza, senza convenienza entriamo quasi in un’esperienza mistica. Ci sentiamo che nulla appartiene davvero ad un ruolo bensì ad un disegno più grande i cui tratti, forme e colori sono proprio quelli che esprimiamo.
Chi fa il mio mestiere, ogni giorno esce di casa per incontrare il nuovo dell’altro. Questo anche se apparentemente sembra che nulla cambi davvero ma sono i piccoli passi che costruiscono l’intero cammino. Mi piace affermare che si cambia vivendo ed è per questo che ogni stimolo, prova, ostacolo possiamo coglierli per interrogarli sempre con cuore e animo leggero e curioso.
Far incrociare le strade della vita riconoscendo il disegno del nostro destino rappresenta una vera sfida, direi una sfida che va vissuta con il cuore aperto a tutto ciò che ci attraversa, anche quando lo scoraggiamento incombe.
E il Viaggio per diventare ciò per cui siamo nati non ha una data per concludersi. Di fatto non arriviamo da nessuna parte: piuttosto evolviamo grazie a tutte le esperienze, a quelle che ci hanno appagato ma anche a quelle che hanno limitato l’azione con curve e precipizi. La sfida è rimanere nell’esperienza in forma presente, consapevole, incarnata così da indossarla e esibirla ad ogni istante.
Non dobbiamo avere fretta.
La fretta è la condizione innaturale per superare l’esperienza, per masticarla, sminuzzarla, stropicciarla, sminuirla per poi non trovarne alcuna traccia della nostra memoria.
Lo sgarbo peggiore che possiamo fare alla nostra quotidianità è dimenticarci di vivere nel presente.
Dimenticarsi di ogni momento vissuto a leggere frettolosamente una circolare, a discutere trascinati dalla foga per il noto, il consueto, il ristretto, il veloce, il diverso, a rinunciare ad un’intuizione che se restituita al nulla, difficilmente tornerà a parlarci. Ma, non c’è tempo. Non c’è tempo per esplorare, per immaginare, per sentire.
Dimenticarsi di una conversazione, del suo contenuto, della sua importanza, di un memo per chi arriva al turno dopo, della new entry e degli obiettivi che non ci stanno piacevolmente distratti dal suono di due cellulari contemporaneamente o dall’arrivo del “bip” di una mail.
Dimenticarsi del perché facciamo ciò che facciamo, di cosa crea ciò che facciamo, su cosa e chi impatta ciò che facciamo.
Dimenticarsi così, per rispondere confusamente ad ogni impulso o rumore che si presenta alla porta e lasciarlo entrare grazie al vortice dell’automatismo, sopratutto eternamente convinti che non c’è soluzione.
Di fatto vivere il lavoro con il cuore ha un sapore e una consistenza molto diversa.
Significa coltivare la pazienza di un processo che si compie, secondo leggi e criteri imperfetti quando PRENDIAMO per mano l’esperienza e ci lasciamo guidare dalla vita aziendale, che risponde a criteri selettivi molto ampi e complessi, fuori dal nostro “ideale” controllo.
E noi, dall’alto del nostro RUOLO, dalla certezza dettata da metodo e pianificazione, vediamo crollare irrimediabilmente planning che hanno riempito le agende nostre e di coloro che accorrono alla fonte.
E ora, che possiamo accogliere la parzialità di indossare un RUOLO AUTENTICO il cui Valore si arricchisce di dimensioni umane, disposti a considerare la naturale vulnerabilità di ogni ottica deterministica eccoci finalmente pronti a lasciar accendere la vita con minor angoscia e maggior fiducia, a dare il benvenuto all’ospite inatteso che nella Locanda di Rumi trova sempre il suo “perché”. Possiamo inserire alcune domande di consapevolezza che ci aiutano a dare valore a quel presente, ad accettarlo con una certa equanimità e auto-compassione per tutte le volte che ci sentiamo impotenti di fronte all’imprevisto.
E possiamo chiederci:
- Come mi sento finché sto qui?
- Cosa provo? A cosa sono presente?
- A cosa sono grato/a
- Da cosa sono circondata/o?
- Cosa conta davvero adesso?
Sebbene ogni RUOLO possa rappresentare una qualche forma di rifugio, il Viaggio di ogni essere umano è scoprire, attraverso ciò che sa creare, la “relazione tra ciò che fa con ciò che è” e questa dimensione di curiosità e apertura del cuore può essere coltivata soltanto con lo STARE CONSAPEVOLE.
Ogni singola PERSONA porta doni straordinari solo quando agisce da se stessa in modo autentico; nulla può restituire questo tipo di gioia se non la cura, l’impegno, la dedizione a continuare il Viaggio che siamo chiamati a realizzare, un Viaggio che ogni giorno riserva sorprese.
E spesso le sorprese sono lette come “scocciature”, ostacoli, imprevisti resi ancora più fastidiosi se a fare da specchio c’è l’Altro.
E l’Altro, la sua presenza, la sua invadenza, il suo giudizio ci servono per evolvere.
La sfida per ciascuno di noi è di non sottovalutare il proprio dono, ciò che siamo chiamati ad esprimere oltre le aspettative, le regole culturali e di convivenza, il mero fabbisogno per arrivare da qualche parte. Come dicevo sopra non arriviamo da nessuna parte: piuttosto evolviamo grazie a tutte le esperienze, a quelle che ci hanno appagato così come a quelle che ci hanno limitato la vista con curve e precipizi.
Serve pazienza.
Serve pazienza affinché il risultato prenda forma DAL CUORE. Ci si deve sedere con pazienza per imparare un mestiere, per vedere compiersi un progetto, per assistere alla trasformazione di una cultura organizzativa.
Si racconta che in Giappone, prima che un apprendista possa modellare con le mani e lavorare al tornio, debba osservare il maestro vasaio per anni. “Lascia che la terra scorra fra le mani con calma, non avere fretta” ripete il Maestro “la terra non si può lavorare con la fretta, la terra si ricorda di tutto, non devi distrarti”.
Allo stesso modo alle Hawaii, prima che un giovane possa toccare una barca, deve sedersi sulla scogliera dei suoi antenati e semplicemente guardare il mare.
E in Svizzera si narra che il maestro orologiaio, prima di poter accoppiare i suoi minuscoli ingranaggi, deve stare seduto abbastanza a lungo da sentire lo scorrere del tempo.
Al leggendario violoncellista Pablo Casals è stato chiesto all’età di 92 anni perché si esercitasse quattro ore al giorno. Lui sorrise e rispose: “Perché credo che sto facendo progressi”. Qui, il RUOLO incontra la Persona e solo questo rende i nostri cuori colmi di bellezza ed emozioni nutrienti….